Yoga Sat Nam

Sono Occidentale e non ci credo che sei un Realizzato

Sono Occidentale e non ci credo che sei un Realizzato
Questo brano è tratto da " Io sono quello ", una raccolta di dialoghi con Nisargadatta Maharaj, avvenuti a Bombay fra il 1970 e il 1972, registrati e pubblicati da Maurice Frydman. | Maruti Kampli nasce nel 1897 a Bombay. Si sposa, cresce quattro figli e per vivere fa il tabaccaio. A 33 anni conosce un maestro che gli insegna a concentrarsi sul mantra Brahmasmi ("Sono il Supremo"). Poco dopo si realizza ed assume il nome di Nisargadatta Maharaj. Resta nella sua casa a dialogare con chiunque lo raggiunga fino al 1982, anno in cui muore.
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16 Gennaio 1971

Intervistatore: Molti Occidentali capitano qui. La loro maggiore difficoltà, da occidentali, è quella di accettare l'idea dell'uomo liberato, realizzato, conoscitore di sé e di Dio, dell'uomo che ha trasceso il mondo. L'unica idea equivalente nella cultura cristiana è quella del santo, del pio, sottomesso alla legge, che teme Dio e ama il suo prossimo, prega, accede a un'estasi di tanto in tanto, e assevera la sua fede con qualche miracolo. L'idea di realizzato suona in Occidente peregrina, come qualcosa di esotico e scarsamente credibile. E anche quando l'esistenza di un individuo del genere è fuori dubbio, nondimeno è guardato con sospetto, come un caso di autoesaltazione, favorita da certe strane positure del corpo e atteggiamenti della mente. L'idea stessa di una diversa dimensione di coscienza sembra infondata e improbabile. A persone del genere gioverebbe molto incontrare un realizzato, che descrivesse la sua esperienza dagli esordi agli sviluppi più avanzati, e il modo in cui la applica nella vita quotidiana. Molto di quello che direbbe suonerebbe strano, persino insensato, eppure lascerebbe l'impronta tangibile di una vera esperienza, ineffabile ma realissima, un centro saldo dal quale vivere una vita esemplare.
Maharaj: L'esperienza può non essere comunicabile. E tu, come comunichi un'esperienza?

I.: L'artista lo fa. L'essenza dell'arte è la comunicazione di un sentimento, di un'esperienza.
M.: Bisogna che ci sia ricettività.

I.: Certo dev'esserci un ricettore; ma se il trasmettitore non trasmette, a che serve il ricevitore?
M.: Il realizzato appartiene a tutti. Si dona infaticabilmente a chiunque venga a lui. Se non è un donatore, non è un realizzato. Qualunque cosa abbia, la spartisce.

I.: Ma può spartire il suo modo di essere?
M.: Vuoi dire, se può rendere gli altri com'è lui? Sì e no. No, perché un realizzato non si costruisce da fuori, si diventa tale ritornando all'origine, alla propria natura autentica. Non posso farti diventare quello che già sei. Posso solo descriverti il mio viaggio, e invitarti a intraprenderlo.

I.: Con questo non mi avete risposto. Intendevo riferirmi all'atteggiamento critico e scettico dell'Occidentale, che nega l'esistenza di stati più elevati di coscienza. In tempi recenti le droghe hanno fatto breccia in questa incredulità, senza con ciò modificare il materialismo di quella prospettiva. Droghe o no, il corpo resta il fattore primario, e la mente il secondario. Al di là della mente essi non vedono nulla. Dal Buddha in poi l'autorealizzazione è stata descritta negativamente come "né questo né quello". È inevitabile? C'è modo invece di descriverla? So bene che nessuna descrizione verbale si adatterebbe, quando lo stato descritto è oltre le parole. Tuttavia è anche dentro. La poesia è l'arte di mettere in parole l'inesprimibile.
M.: Di poeti ispirati dalla religione, ce n'è sempre stati tanti. Rivolgiti a loro per ciò che ti serve. Quanto a me, il mio insegnamento è semplice: fidati di me e fa' come ti dico. Se perseveri, vedrai che sarà stata una fiducia ben riposta.

I.: E come si fa con quelli che sono interessati ma senza fiducia?
M.: Se potessero stare con me, finirebbero col credermi. E appena mi credessero, seguirebbero il mio consiglio e scoprirebbero da sé.

I.: Non sull'allenamento mi preme d'indagare ora, bensì sui risultati. Voi avete conosciuto l'uno e gli altri; ma mentre siete ben disposto a parlarci del primo, quando si arriva ai risultati, vi rifiutate di parteciparli. O sostenete che la vostra condizione è al di là delle parole, oppure che non c'è differenza con la nostra, e che dove noi la vediamo, per voi non c'è. In ambedue i casi, ci è impedita qualsiasi introspezione in come stanno le cose.
M.: Come può esserci introspezione nel mio stato, se non ce n'è per voi nel vostro? Quando mancano le lenti, non è indispensabile anzitutto procurarsele? È come se un cieco volesse imparare a dipingere prima di riacquistare la vista. Volete conoscere il mio stato; e che ne sapete di quello di vostra moglie o del vostro servitore?

I.: Mi accontenterei di accenni.
M.: Se è così, una chiave di prim'ordine te l'ho già data: dove per voi c'è differenza, per me non ce n'è. Basta questo. Se pensi che non basti, posso ripeterlo: basta. Se ci pensi a fondo, arriverai a vederlo come me. Vorresti un'intuizione istantanea, e dimentichi che l'improvviso è sempre preceduto da una lunga preparazione. Il frutto cade di botto ma la maturazione richiede tempo. Ti chiedo di avere fiducia in me solo quel tanto che occorre per incominciare. Più sei
serio, meno fiducia avrai da spendere, perché presto ti accorgerai che è ben riposta. Pretendi che ti dimostri la mia affidabilità. Come posso, e perché dovrei farlo? D'altronde, ti offro un approccio strettamente operativo, come quello della vostra scienza. Quando uno scienziato descrive una scoperta e i risultati, ne accogliete gli enunciati sulla fiducia, e ripetete l'esperimento secondo la sua descrizione. E se ottenete un risultato identico, non vi occorre altro credito in lui, perché l'esperienza ormai è diventata vostra.

I.: La mente indiana è stata allenata all'esperienza metafisica da una saggezza e un nutrimento spirituale, volti costantemente verso di essa. Per un Indiano, espressioni come "diretta percezione della Realtà Suprema" hanno senso e producono risposte nei recessi più profondi dell'essere. Per l'Occidentale significa assai poco; anche quando è stato allevato in una prospettiva cristiana, si limita a osservare i comandamenti di Dio e le parole del Cristo. Una conoscenza diretta della realtà è inconcepibile. Molti Indiani me lo confermano: non parlare di autorealizzazione a un Occidentale; che viva una vita utile, piuttosto, e si prepari a una rinascita indiana. Dicono alcuni: la realtà è la stessa per tutti, ma non tutti hanno uguale disposizione a coglierla. La capacità viene dal desiderio, che produce la dedizione, e infine la totale abnegazione. Se impiega integrità e un'incrollabile determinazione a superare gli ostacoli, l'Occidentale ha la stesse probabilità dell'Orientale. Gli ci vuole solo di far leva sull'interesse verso la conoscenza di sé, ma per questo deve essere convinto del vantaggio che trae.
M.: E credi possibile trasmettere un'esperienza personale?

I.: Questo non lo so. Siete voi che parlate di unità, di identità del contemplatore col contemplato. Se tutto è uno, la comunicazione dovrebbe essere possibile.
M.: Per avere una conoscenza diretta di un Paese, bisogna andare a viverci. Non chiedere l'impossibile. La vittoria spirituale di un uomo non c'è dubbio che benefichi l'umanità; ma per fare del bene a un singolo, occorre che il rapporto con lui sia stretto. Non può essere accidentale, e non a tutti è dato pretenderlo. L'approccio scientifico invece è aperto a tutti i "credi-prova-assaggia". Che ti occorre di più? Perché ficcare a forza la verità in gole riottose? E comunque è precluso. Se non c'è chi riceve, che può fare il donatore?

I.: L'essenza dell'arte è usare una forma per comunicare un'idea interiore. È ovvio che bisogna essere sensibili a ciò che è all'interno, perché l'esterno abbia senso. E come si aumenta la sensibilità?
M.: Comunque tu la metta, il risultato è lo stesso. Donatori ce n'è tanti; dove sono quelli che prendono?

I.: Potete spartire la vostra sensibilità?
M.: Sì, ma è una strada a doppio transito. Bisogna essere in due. Ci vuole uno disposto ad accettare ciò che gli do. E chi c'è?

I.: Dite che siamo tutt'uno. Non basta?
M.: Io sono tutt'uno con te. Tu lo sei con me? Se lo sei, non domanderai. Se no, se non vedi ciò che vedo io, che posso fare di più che mostrarti come accrescere la tua vista?

I.: Ciò che non potete dare, vuoi dire che non è vostro.
M.: Non c'è niente che rivendichi per mio. Quando non c'è l'io, dov'è il mio? Due guardano un albero. Uno vede il frutto nascosto nel fitto dei rami, l'altro non lo vede. Non c'è altra differenza tra loro. Chi vede sa che con un briciolo di attenzione anche l'altro vedrebbe, ma la questione della partecipazione non si pone. Credimi, non sono un avaro che trattiene la sua parte di realtà. Al contrario, sono tutto tuo: mangiami e bevimi. Ma perché ripeti - a parole - che dai, e non fai niente per prendere ciò che ti si offre? Non faccio che mostrarti una via semplice e rapida per vedere quello che io vedo, ma tu ti attacchi alle vecchie abitudini di pensiero, sentimento e azione, e getti la colpa su di me. Io non ho niente che tu non abbia. La conoscenza di sé non è un pezzo di proprietà da offrire o accettare. È una dimensione completamente diversa, in cui non c'è prendere e non c'è dare.

I.: Dateci almeno un assaggio di ciò che pensate normalmente. Mangiare, bere, dormire, come sono dalla vostra sponda?
M.: Le cose comuni della vita le vivo esattamente come te. La differenza sta in quello che non vivo: non vivo la paura, l'avidità, l'odio e l'ira. Non domando, non rifiuto, non trattengo niente. Forse questa è la differenza più importante tra noi: non faccio compromessi e sono vero con me stesso, mentre tu temi la realtà.

I.: Dal punto di vista occidentale, c'è qualcosa di profondamente irritante in questo atteggiamento. Stare in un canto a rimuginare "Sono Dio, sono Dio", sembra pura follia. Come persuadere un Occidentale che tali pratiche portano alla sanità suprema?
M.: L'uomo che si sente Dio e quello che ne dubita, s'ingannano entrambi. Parlano in sogno.

I.: Se tutto è sogno, che cos'è la veglia?
M.: Come descrivere la veglia nel linguaggio del sogno? Le parole non descrivono, sono solo simboli.

I.: Riecco la solita scusa dell'incomunicabilità.
M.: Se ci tieni alle parole, te ne darò alcune di potere. Ripetile senza intermissione, fanno miracoli.

I.: Dite sul serio? Direste a un Occidentale di ripetere incessantemente Om, Ram o Hare Krishna anche se manca di fede e d'un minimo di persuasione? Senza fiducia e fervore, la ripetizione meccanica degli stessi suoni, porterà mai da qualche parte?
M.: E perché no? È la spinta profonda dall'interno che conta, non la forma che assume. Qualunque cosa faccia, se la fa per trovare il suo essere, certamente ci arriverà.

I.: Non occorre credere nell'efficacia dei mezzi?
M.: No, perché la fede non è altro che un'attesa dei risultati. Qui solo le azioni contano. Qualunque cosa tu faccia in nome della verità, ti ci condurrà. Sii serio e onesto. La forma che assume, conta poco.

I.: E allora, che bisogno c'è di dar forma al proprio desiderio?
M.: Infatti. Non c'è bisogno. Se non fai niente, funziona altrettanto. Il puro desiderare, non diluito nel pensiero e nell'azione, ti condurrà speditamente allo scopo. È il motivo, che conta, non il modo.

I.: Incredibile! Che efficacia può avere l'ottusa ripetizione praticata nella noia, sulla soglia della disperazione?
M.: È proprio il ripetere, l'ostinarsi senza tregua, a dispetto della noia, della disperazione e di un'assoluta incredulità, il fatto cruciale. Dev'esserci una spinta da dentro e un tirare da fuori.

I.: Le mie domande sono tipicamente occidentali. Pensiamo in termini di causa ed effetto, di mezzi e fini. Non vediamo il rapporto tra una data parola e la realtà assoluta.
M.: Non c'è rapporto. C'è piuttosto un legame tra la parola e il suo significato, tra l'azione e la motivazione. La pratica spirituale non è altro che volontà conclamata e reiterata. Chi non è intrepido non accetterà il reale anche se gli viene offerto. La ritrosia nata dalla paura è l'unico ostacolo.

I.: Che cosa si teme?
M.: L'ignoto.

I.: Volete dire che potete partecipare il modo della vostra realizzazione ma non i frutti?
M.: Se non faccio altro che spartire i frutti! Ma rimane un linguaggio muto. Impara ad ascoltare, e capirai.

I.: Non vedo come si possa incominciare senza convinzione.
M.: Sta' con me per un po', o concentrati su ciò che ti dico di fare, e la convinzione spunterà.

I.: Non tutti possono avere l'occasione d'incontrarvi.
M.: Incontra te stesso. Sta' con te, non occorre altra guida. Finché il bisogno di verità influenza la tua vita quotidiana, va tutto bene. Vivi senza offendere. L'innocuità è la forma più potente di yoga, e ti conduce rapidamente allo scopo. È quello che chiamo Nisarga Yoga, lo yoga naturale. È l'arte di vivere in pace e in armonia, in amicizia e in amore. Il suo frutto è la felicità non causata e senza fine.

I.: Ma ci vuole fede.
M.: Entra in te, e la fiducia verrà. In tutti gli altri casi la fiducia viene con l'esperienza.

I.: Quando un uomo mi dice che sa qualcosa che io non so, ho il diritto di chiedere come la sa?
M.: E se ti dice che non può dirtelo a parole?

I.: Allora lo scruto e cerco di capirlo.
M.: E questo è esattamente ciò che voglio tu faccia. Sii interessato e attento. Quando si stabilisce una corrente di mutua comprensione, anche la spartizione diventa facile. In effetti, la realizzazione non è che uno spartire, un condividere. Entri in una coscienza più ampia e la rendi partecipe. La ritrosia a entrare e a condividere è l'unico ostacolo. Non parlo mai di differenze. Per me non ce ne sono. Altrimenti, mostramele tu. Ma se mi capisci, non parlerai più di differenze. Per arrivare basta capire bene una sola cosa. Ciò che t'impedisce di conoscere non è la mancanza di un'occasione, ma la capacità di mettere a fuoco nella mente quello che vuoi capire. Se potessi trattenere ciò che non sai, ti rivelerebbe i suoi segreti. Ma se sei pigro e impaziente, non abbastanza serio per guardare e aspettare, sei come un bambino che piange perché vuole la Luna.
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